“Parce Domine, parce populo tuo, e in aeternum irascaris nobis” (Risparmia, Signore, il tuo popolo, non adirarti per sempre con noi) così pregava con angoscia mortale l’Arciprete Don Valerio, nell’antico oratorio di S.Rocco preso il lago di Varsi, affinché il Santo tanto invocato dai suoi parrocchiani nei momenti di pestilenza intercedesse per placare l’ira di Dio e facesse cessare il flagello della pesta, che infieriva nella città di Parma e aveva ormai raggiunto in quel tremendo inizio d’autunno del 1630 le vicine località di Varano de’ Melegari, Vianino, Bardi, Compiano si stava diffondendo a macchia d’olio anche nella zona di Varsi.
Il contagio della peste incuteva in tutti un cupo terrore con i suoi sintomi paurosi: bubboni paonazzi, febbri altissime, arsure insopportabili.
Don Valerio all’inizio era accorso al capezzale dei primi ammalati poi era sopraggiunto l’ordine perentorio di trasferire i sospetti contagiati nel luogo poco discosto dall’abitato, chiamato “Lazzaretto” formato da alcune misere baracche di legno coperte di fronde, in ottemperanza agli ordini giunti da Parma.
Don Valerio era stato invitato dalle autorità a convincere i suoi parrocchiani, poco sensibili per ignoranza e miseria ai problemi della sanità pubblica, ad osservare con scrupolo le regole della “quarantena”.
Era stato un arduo compito far capire che l’unico antidoto efficace contro il diffondersi della peste consisteva nell’osservanza rigorosa degli ordini: proibito andare in altra zona abitata o conversare o trattare in qualsiasi modo con persone estranee, proibito trattenersi con i vicini ed uscire, se contadini, dai confini dei propri campi.
Don Valerio aveva poi letto “l’avviso” che ordinava di preparare un cimitero distante dalle case dove seppellire i sempre più numerosi morti del lazzaretto premurandosi che i cosiddetti “beccamorti” facessero un numero di buche corrispondenti ai cadaveri e che tali buche fossero profonde almeno tre braccia e ben battute sopra dopo i seppellimenti per evitare pestilenziali odori. L’anziano Arciprete vedeva, di giorno in giorno, diminuire in modo impressionante il numero dei suoi parrocchiani e il disgregarsi dei nuclei familiari, mentre aumentava il lavoro per i “brutti” ossia gli scampati dalla peste, utilizzati in quell’emergenza per trasportare gli infetti al lazzaretto, eseguendo gli ordini dei Visitatori, che ispezionavano le case sospette di contagio e ordinavano di bruciarne i mobili. Molti contadini vedendo la campagna così desolata erano fuggiti verso le più ricche zone pianeggianti intorno alle città, rimaste con un numero insufficiente di braccianti agricoli: per salvarsi dalla peste non volevano sicuramente morire di fame.
Il povero Arciprete aveva saputo che il suo amato paese d’origine: Vianino era diventato quasi un deserto: i suoi parenti ed amici erano scomparsi: restava suo nipote Don Girolamo. “Devo farlo” disse tra sé “Non posso più continuare così, devo presentare una petizione al Santo Padre Urbano VIII perché mi conceda il privilegio di lasciare la parrocchia di Varsi nelle mani di mio nipote Don Girolamo.
In mezzo a questa pestilenza, mi sento un uomo finito”.
Prese allora un foglio e intinse la penna nel calamaio.
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