
Città d’Ombria, nota anche come Castelliere d’Ombria e Città d’Umbrìa, è un sito archeologico fondato probabilmente tra il III e il II secolo a.C. dai Liguri o dagli Umbri, fortificato nel VI o VII secolo dai Bizantini, che si trova a 977 m s.l.m. alle pendici del monte Barigazzo nei pressi delle frazione di Tosca, all’interno del comune di Varsi, in provincia di Parma.
Tratto da Wikipedia
Toponimo
L’origine del toponimo, al pari di quella del sito archeologico, non è ancora completamente chiara. Mentre nel caso in cui i fondatori della città fossero stati gli Umbri i dubbi svanirebbero immediatamente, più difficile sarebbe la spiegazione qualora l’insediamento fosse sorto per mano dei Liguri, come oggi pare più probabile; un’ipotesi ritenuta non troppo attendibile già dallo storico Bernardo Pallastrelli legherebbe il nome “Ombria” alla presunta origine ambrona dei Liguri, che sarebbe stata rivelata da Plutarco nelle Vite parallele.
Scavi
Nel 1861, sulla base delle Effemeridi, redatte nel 1832 dal conte Gianbattista Anguissola,e delle Pitture delle Valli di Taro e Ceno, scritte in forma di epistola nel 1617 da Francesco Picinelli e Bernardo Landolo, l’archeologo americano Alessandro Wolf intraprese una campagna di scavi accanto a un piccolo specchio d’acqua, ribattezzato Lago di Città, su un altopiano del monte Cravedosso, nei pressi della piccola frazione di Tosca; per 3 mesi, grazie ad alcuni finanziamenti privati, i lavori proseguirono, consentendo di portare alla luce i resti di una torre angolare e dell’adiacente cinta muraria dell’antica città.
Negli anni seguenti gli studiosi cercarono di datare il sito archeologico, ma nessuno fu in grado di stabilire con certezza l’epoca delle rovine e la civiltà che le edificò; furono proposte molte ipotesi, tra cui quella del paletnologo Luigi Pigorini, incline a una datazione alto-medievale, rigettata dalla maggioranza degli storici; furono considerate più verosimili le attribuzioni agli Umbri e ai Liguri. Mentre dei secondi la presenza nella zona è testimoniata grazie al rinvenimento nei secoli di alcuni insediamenti, per quanto riguarda i primi mancano tuttora le prove che ne certifichino qualsiasi contatto col territorio; tuttavia, la coesistenza dei due luoghi contigui di antica origine, Città d’Umbria e Tosca, indusse lo studioso Bernardo Pallastrelli a propendere per la prima ipotesi, in considerazione del legame che per alcuni secoli unì i Tusci agli Umbri. In entrambi i casi, gli storici ipotizzarono che la città sarebbe stata fondata quale avamposto fortificato a difesa del territorio dalle incursioni dei Celti oppure dei Romani, qualora fosse stata edificata in epoca più recente.
Nel 1892 tentò invano di svelare il mistero dell’origine della città l’archeologo Giovanni Mariotti. Nel 1950 fu intrapresa una nuova campagna di ricerche dal marchese Maurizio Corradi Cervi, che raccontò i risultati dei suoi studi nel suo diario, attribuendo ai Liguri la fondazione dell’insediamento.
Altre indagini con l’ausilio di numerosi specialisti furono effettuate nel 2012 dalla Soprintendenza archeologica dell’Emilia-Romagna, consentendo di giungere a un risultato finalmente più affidabile; furono individuate due diverse fasi costruttive della città: la prima, risalente al III o II secolo a.C., sarebbe dovuta ai Liguri, mentre la seconda, cui sarebbero da attribuire i resti ancora visibili all’interno del sito archeologico, ai Bizantini, che nel VI o VII secolo vi avrebbero eretto una struttura fortificata per difendersi dalle invasioni dei Goti o dei Longobardi.
Rovine
La città si estende su una superficie pressoché trapezoidale di 7200 m2, di cui solo 160 finora identificati; tutti i ruderi rinvenuti appartengono molto probabilmente alla fase bizantina dell’insediamento.
In corrispondenza dello spigolo occidentale si trovano i resti di una torre a base quadrata, di 8 m per lato, che emergevano di 1,5 m nel 1861, mentre oggi, a causa dello stato di abbandono del sito, misurano solo circa 0,5 m di altezza. Verso nord si estende per 50 m, oltre il varco di una delle antiche porte, un tratto delle mura esterne della città fortificata, realizzato in muratura regolare; al termine del rettifilo, la cinta devia ortogonalmente proseguendo per ulteriori 10 m con le stesse caratteristiche costruttive del tratto precedente, mentre per i restanti 35 m la parete è costituita da pietre sconnesse; più avanti non rimangono tracce della cinta, irrimediabilmente perduta. Verso sud-est, invece, si estende per 78 m un tratto di mura con andamento leggermente incurvato, che segue l’orografia del terreno; dopo alcuni metri dalla torre, la cinta è internamente suddivisa in 33 piccoli vani rettangolari, che costituivano presumibilmente i sostegni dei camminamenti di ronda; al termine la muratura si interrompe per la probabile presenza di un’altra porta cittadina, dopodiché la cinta riprende irregolarmente dirigendosi verso nord per circa 17 m, oltre i quali non rimangono ulteriori tracce. I tratti mancanti a nord ed est corrispondono al bordo esterno dell’altopiano, oltre il quale il versante improvvisamente scoscende verso valle.
All’interno della città, dominata da numerosi esemplari secolari di faggi, il suolo ondulato è coperto da pietre sparse, probabilmente appartenenti alle antiche costruzioni; durante gli scavi ottocenteschi l’archeologo Alessandro Wolf rinvenne una grande buca della profondità di 8 m, praticata in epoca imprecisata probabilmente alla ricerca di tesori, ma non trovò alcun reperto degno di nota. Anche le altre indagini riportarono alla luce scarsi manufatti,ma le ricerche svolte nel 2012 dimostrarono la presenza, nei magazzini del Museo archeologico nazionale di Parma, di vari frammenti di ceramiche di produzione locale risalenti all’epoca alto-medievale, raccolti nel sito archeologico ma volutamente ignorati negli scavi passati per avvalorare la tesi della fondazione preromana.
La leggenda
La storia a Umbrìa si è spesso confusa con la leggenda. Già nei documenti antichi la città è avvolta in un’atmosfera favolosa, custode di grandi tesori, una sorta di El Dorado, che naturalmente non poteva che favorire l’interesse di avventurieri e naturalmente di archeologi, che spesso finivano con l’essere incarnati nella stessa persona. Tra questi “Indiana Jones” una menzione merita senz’altro il tedesco-americano Alexander Wolf, che è finito col diventare parte stessa della leggenda.
“La città d’Umbrìa era già un mito quando Wolf arrivò nell’Ottocento. La sua figura dovette destare una forte impressione tra i valligiani, tanto da entrare nel folklore. Si racconta dello straniero venuto da lontano, alla ricerca del tesoro con una bacchetta magica, con la quale riesce ad aprire le montagne e trova dei nani, custodi di grotte piene di monete d’oro, argento e rame. Poi lo straniero se ne va, senza portare via nulla, ma il valligiano che lo aveva accompagnato, gli chiede di lasciargli la bacchetta, per recuperare il tesoro. Purtroppo farà una brutta fine, perché un drago gli sbarrerà la strada.